“Guida ai consumi contro la crisi”
di Antonio Lubrano con le illustrazioni di Vauro (2010)
Antonio Lubrano e Vauro, 2010 – Terza Guida di Giudizio Universale. Tra i consigli di Lubrano e le vignette di Vauro, un volume per il consumatore attento sia al proprio portafoglio che all’etica e all’ambiente. Dalla A di Abbuffata alla Z di Zero, passando per Class action, Garanzia, Low cost e Sfuso, un dizionario prezioso per il nuovo cittadino anticonformista.
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Il paladino dei consumatori Antonio Lubrano e il vignettista Vauro firmano una Guida ai consumi contro la crisi. Riflessioni e consigli tra l’ironia e l’amarezza per uno shopping senza trappole nell’attuale fase economica.
Difendersi dall’overbooking, dalle aziende che cercano di non rispettare le garanzie, dagli inganni dei cibi light. Ma soprattutto rifletterci un po’ su, leggere l’etichetta sulla bottiglia dell’olio d’oliva e cogliere l’occasione per pensare a come stiamo vivendo la nostra vita e come è diventato e sta diventando il nostro mondo. Concedendosi, magari, anche una sana risata.
Accoppiata esplosiva, il paladino dei consumatori Antonio Lubrano e Vauro, la star più trasgressiva di Annozero, firmano insieme un’atipica “Guida ai consumi contro la crisi”. Che dalla A di “Abbuffata” alla Z di “Zero tolleranza per gli inquinatori” mette insieme, condendoli con vignette esilaranti e allo stesso tempo amarissime, qualche suggerimento e molte riflessioni sul futuro energetico, la crisi mondiale che ha scosso la fiducia nello sviluppo illimitato e messo in discussione il mito del consumo, il dubbio sull’efficacia, oggi, di armi come il boicottaggio.
Forse non tutto negativo, a leggere Lubrano. Che alla O di “Orticello”, trova un risvolto positivo persino nella crisi, che ha fatto rivalutare agli italiani l’arte di arrangiarsi, il semplice, l’essenziale, a scapito del superfluo. Proprio la crisi, scrive il difensore civico per eccellenza, indimenticabile e garbato mattatore di “Mi Manda Lubrano” sulla Raitre dei primi anni Novanta, ha fatto riscoprire le sartine per aggiustare i vestiti invece di comprarne sempre di nuovi e i calzolai per risuolare scarpe che possono costare anche 500 euro. Il bello di questa piccola e gustosa guida, però, è che l’informazione non è mai una sola. Nel caso dell’orticello, Lubrano ne approfitta per un cenno storico all’autarchia e agli orti di guerra di mussoliniana memoria e tira fuori una serie di esempi di moderna autarchia, segno, sottolinea, che il fenomeno sta tornando di moda. Tant’è che ci sono gli orticelli affittati, con un costo che oscilla tra i 15 e gli 80 euro, nel Bosco della Giretta a Settimo Milanese, e altri sono attivi a Milano (si chiamano “particelle ortive” ci informa Lubrano, e ce ne sono 400) e anche Padova. Mentre pare che insieme agli orti in affitto stiamo prendendo piede anche i corsi di formazione per “ortisti”.
Spunto per diverse digressioni, anche la B di “Boicottaggio”, occasione tra l’altro per scoprire che la parola deriva dal cognome di un certo capitano inglese, Charles Cunngham Boycott, vissuto nell’Ottocento, che era l’amministratore delle terre del conte di Erne, in Irlanda, un tipo feroce e antipatico che tormentava i contadini facendoli lavorare giorno e notte. Alla fine scoppiò contro di lui una rivolta particolare: cominciarono i vicini di casa a non parlargli più, poi lo fecero anche i commercianti, i fedeli in chiesa. Tanto che alla fine il conte lo licenziò. “A questo punto, la domanda sorge spontanea”, avrebbe detto il Lubrano degli anni ruggenti fissando la telecamera con il gli occhialoni e il suo sorriso gentile. Inutile cercarla, in questa guida ai consumi, quella frase tormentone. Lubrano però non resiste e la domanda se la pone lo stesso: “a cosa deve tendere oggi il boicottaggio?”. A isolare “quei produttori che operano in dispregio delle regole fondamentali della convivenza civile”, si risponde. Per poi, sempre garbatamente, ammonire: “Non dovremmo renderci complici dei furbi. E anche se non è sempre sufficiente astenersi dal comprare per qualche tempo questo o quel prodotto di una multinazionale anti-etica, è giusto comunque promuovere il consumo critico, consapevole, che sa distinguere”. [Sky]
Anteprima
Per la storia, il movimento di rivalutazione dell’acqua di casa è cominciato già tra la fine del 2007 e il 2008, quando sulle mense scolastiche di diverse città – Roma, Firenze, Bologna, Milano, Genova, Torino, Alessandria – sono comparse le brocche di oro blu al posto delle bottiglie di plastica. Sono dunque i bambini delle materne, delle elementari, delle medie, i consumatori controcorrente. In un Paese come il nostro, che detiene il record mondiale di consumo di acqua minerale (190 litri pro capite all’anno), è un bell’atto di coraggio. E le famiglie, si è chiesto qualcuno, accettano l’esperimento, convinte come sono in maggioranza che la minerale sia più sicura? Sì, le famiglie si fidano. D’altro canto non pare che il mercato dell’acqua in bottigliaabbia subito dei contraccolpi pesanti. Le 350 marche italiane vendono tranquillamente e la spesa media di ogni nucleo familiare è di circa 300 euro all’anno; però nell’opinione comune vacilla l’idea della sicurezza assoluta e delle proprietà quasi miracolose che la pubblicità attribuisce alla minerale. Del resto tutte le analisi che i periodici specializzati conducono di anno in anno, attingendo alle fontanelle pubbliche di decine di città, appaiono rassicuranti: gli acquedotti rispettano i severi limiti imposti dalla legge, che nel 2001 accolse una direttiva europea sulle acque destinate al consumo umano. E poi i controlli delle aziende comunali confermano che l’acqua del rubinetto “non ha nulla da invidiare alla parente arricchita chiusa in bottiglia”. Due soli esempi: La Spezia, dove l’acqua è monitorata 100 volte al giorno, e Roma, dove le analisi sono 250mila all’anno.

Siamo sicuri che la parola consumatore sia ancora valida? Definisce compiutamente il ruolo del cittadino sul mercato? Treccani dà una spiegazione lapalissiana: consumatore è “chi consuma, o anche, più genericamente, chi acquista beni economici, qualunque carattere abbia il consumo o l’acquisto (di godimento, produttivo o distruttivo)”. Io, invece, nutro da tempo il sospetto che nel vocabolo vi sia una valenza passiva che stride fortemente con la figura del cittadino del terzo millennio. A sua volta, l’economista Mario Deaglio osserva che consumatore è una persona che accetta ciò che l’industria produce e non reagisce, non partecipa in alcun modo al processo creativo. Ed è qui che il mio piccolo rovello cresce. Non si può ignorare, infatti, il graduale mutamento della figura. Giampaolo Fabris, il più famoso sociologo dei consumi, purtroppo di recente scomparso, sostiene che il consumatore manifesta “una crescente indipendenza nelle scelte, si è trasformato in un professionista dell’acquisto, dimentico di antiche soggezioni e riverenze”. Io stesso negli anni di Mi manda Lubrano ho seguito questa metamorfosi e ho teorizzato la nascita di una nuova eresia: l’infedeltà crescente alla marca. Ma non riesco a diradare l’ombra che incombe sulla parola consumatore per una ragione fondamentale: la potenza delle imprese multinazionali, che riesce a condizionare in un modo o nell’altro i comportamenti delle persone e che mette in dubbio la crescente indipendenza di cui parla Fabris. Perciò oggi più di uno studioso parla di “dominio del consumatore”, nel senso che le multinazionali hanno la capacità di produrre quantità planetarie in qualunque angolo del mondo dove la manodopera sia a costo quasi zero e di imporre poi il prodotto sul mercato mondiale con mezzi propagandistici spettacolari, martellanti. Bisognerebbe coniare dunque un termine nuovo, non più cliente né utente, né consumatore; ma questo è un compito che spetta ai linguisti. Nell’attesa, però, la nostra perplessità è alimentata da una semplice constatazione: i singoli individui, i consumatori appunto, non sono in grado di far mutare atteggiamento alle multinazionali i cui metodi di produzione risultano spesso immorali e sono fonte di scandali…Felicità

Non c’è verso di farla rispettare. I commercianti continuano a cadere dalle nuvole quando un cliente richiama la garanzia europea, che dura ventiquattro mesi e non dodici. La disposizione, che la legislazione italiana ha accolto nel febbraio del 2002, fa parte del Codice del consumo e tutela l’acquirente ogniqualvolta un prodotto rivela un difetto, dal televisore che perde il segnale al telefonino che non squilla, dall’asciugacapelli che fa le scintille ed è pure pericoloso al giocattolo telecomandato che non funziona, fino al pezzo di ricambio dell’auto. La norma stabilisce che è il venditore a rispondere del vizio e non il produttore. Sarà il negoziante, poi, a rivalersi sulla casa madre. Quando il cliente mostra lo scontrino dell’acquisto, il commerciante di solito guarda la data e sentenzia: “Ma la garanzia è scaduta”. E se uno giustamente replica “No, guardi che dura due anni”, il venditore nicchia: “Ah sì? A me risulta un anno”. Nel migliore dei casi ritira l’oggetto della discordia e lo spedisce al centro di assistenza della ditta produttrice. Passano settimane, talvolta mesi e recuperarlo finalmente funzionante diventa spesso un calvario.Light

Olio extravergine
Diciamo la verità, l’Europa non ama il tipico. E noi italiani, che di cibi tipici siamo straricchi, ne soffriamo, perché ogni tanto qualche lobby del nord ci costringe a lunghe quanto estenuanti trattative, che non sempre si concludono a nostro favore. La logica delle lobby è fin troppo palese: unificare i gusti perché così il prodotto industriale allarga a dismisura il suo mercato. Se nell’Unione europea c’è un paese che sfugge a questo imperativo, continuando a difendere la sua tipicità, questo paese dà fastidio. L’olio extravergine d’oliva è il simbolo più clamoroso della reticenza europea per l’eccellenza tipica. Ci sono voluti anni perché finalmente sulle bottiglie comparisse l’origine: olio extravergine prodotto con olive italiane. In precedenza bastava dire che le olive, non si sa di quale paese, erano state spremute in un frantoio italiano, per garantire alla bottiglia il marchio del made in Italy. E, malgrado la lunga battaglia, i problemi del nostro olio permangono e con la crisi si ingigantiscono. Iniziamo dal prezzo. Quello dell’olio extravergine di oliva rappresenta un piccolo mistero. Come è possibile che una bottiglia di extravergine costi 3 euro e talora anche 2.90, quando si sa che un extravergine di qualità sta sui 7-8 euro, se non di più? Che olio si vende, realmente, nei supermercati italiani? Può essere vera, allora, la tesi del New Yorker ripresa da alcuni quotidiani, secondo la quale in Italia circola molto extravergine adulterato con olio di nocciola importato?
Quasi-banca
L’etichetta è una classica semplificazione giornalistica. Ufficialmente, secondo una legge del gennaio 2010 in vigore dall’1 marzo dello stesso anno (in accoglimento di una direttiva europea), le quasi-banche si chiamano istituti di pagamento. Perché diciamo“quasi”? Perché somigliano ma non lo sono. Raccolgono denaro, però non danno alcun interesse sui depositi, concedono piccoli prestiti (estinguibili in 12 mesi e finalizzati ad un acquisto specifico), però non trattano titoli né mutui. I consumatori possono aprire un conto in queste quasi-banche depositando lo stipendio, la pensione o il gruzzolo che tengono da parte ma non devono confonderlo con un conto corrente. Si tratta in realtà di un “conto di pagamento” che permette loro una serie di operazioni simili a quelle che si fanno oggi in banca: versare contanti, prelevare, pagare bollette e multe, inviare un bonifico o riceverlo, spedire soldi all’estero, ricevere o fare pagamenti online utilizzando il telefonino o il computer. Qualcuno ha parlato di rivoluzione. E in realtà sotto vari aspetti è così. Innanzitutto cade il monopolio di banche e poste per i conti correnti e quindi dovrebbe aumentare la concorrenza. Il nuovo strumento evita i costi fissi di un conto bancario, è utile per gli acquisti via internet e questo si suppone che invoglierà quei giovani che finora si tengono lontani dagli istituti di credito. Ma chi può proporre conti di pagamento? Gli operatori che vantano già una vasta clientela: i supermercati, le società telefoniche, gli autogrill, le aziende televisive. Gli istituti di pagamento nascono con un capitale minimo che va da 25mila a 125mila euro, devono essere autorizzati dalla Banca d’Italia (per cui sono sotto controllo) e sono obbligati ad aderire all’Abf, ossia all’Arbitro bancario e finanziario, una sorta di difensore civico del consumatore. In parole povere la differenza è questa: se la banca ti aiuta a risparmiare, l’istituto di pagamento ti aiuta a spendere. È comprensibile dunque che i primi fondatori delle Qb si chiamino Coop, Carrefour, Sma, e forse i prossimi saranno Telecom o Vodafone, le Ferrovie dello Stato, le tv digitali. A questo punto ci chiediamo: la concorrenza delle quasi-banche porterà ad una maggiore e reale trasparenza delle banche vere? Speriamo di sì. La aspettiamo da decenni.
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