
A quasi dieci anni dall’omicidio del fotografo italiano la verità dei fatti c’è: fu crimine di guerra ucraino. Ma manca la volontà politica di chiederne conto a Kiev. Una storia paradigmatica | di Anna Dichiarante (L’Espresso, 15 marzo 2024)
Quando la corrispondente della Cnn, Christiane Amanpour, ricorda che durante l’assedio di Sarajevo la sua troupe trovò i fori dei proiettili tra la “T” e la “V” impresse sul furgone, arriva a una conclusione: i cecchini la presero intenzionalmente di mira. Così, in quella guerra s’infranse l’inviolabilità dei giornalisti in zone di conflitto. Questi ultimi – sancisce il primo protocollo aggiunto nel 1977 alla III Convenzione di Ginevra del 1949 – «saranno considerati come persone civili» nelle loro «missioni professionali pericolose» e «saranno protetti in quanto tali». Un principio che appare come un’illusione. Ancora di più nei giorni in cui cade l’anniversario dell’assassinio di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin. Inviati del Tg3 in Somalia, stavano ricostruendo le piste del traffico di armi e rifiuti tossici di cui il Paese africano era base: in un contesto torbido, in mezzo a una lotta fratricida, avevano scoperto tracce che conducevano fino all’Italia. Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, un’esecuzione a sangue freddo li fermò. Sono trascorsi trent’anni. Ma le indagini, i processi e una commissione parlamentare d’inchiesta non sono bastati ad accertare i mandanti e il movente ufficiale. Anche se più forti di omissioni e depistaggi sono stati i genitori di Alpi, Giorgio e Luciana, scomparsi nel 2010 e nel 2018: la loro costante richiesta di verità ha impedito che sulla vicenda calasse il silenzio.
Intanto, nel mondo, il copione s’è ripetuto. L’11 maggio 2022, Shireen Abu Akleh è stata ammazzata mentre raccontava per Al Jazeera l’intervento dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Nonostante indossasse elmetto e giubbotto con scritta “Press”, un colpo l’ha centrata alla testa. Dopo aver accusato i palestinesi, Tel Aviv ha ammesso che potrebbe essere stato un suo soldato a sparare per errore, ma che non lo avrebbe individuato. E proprio nei Territori occupati si sono concentrate le violenze contro i giornalisti negli ultimi mesi. L’inferno scatenato nella Striscia di Gaza dalla reazione israeliana agli attentati di Hamas si aggiunge ad altri scenari – dall’Est Europa al Sud America – in cui combattimenti, criminalità organizzata e regimi autoritari soffocano la libertà di stampa. Secondo Reporters sans frontières, i giornalisti uccisi nel 2023 sono 50 e nel 2024 sarebbero già nove. Per il Committee to Protect Journalists, si sale a 99 nel 2023 e a undici nel 2024. Ci sono poi quelli feriti, imprigionati, spariti nel nulla. I numeri non combaciano perché ogni organizzazione segue criteri diversi nel conteggio, distinguendo tra chi ha perso la vita in servizio o in agguati e chi è rimasto sotto le bombe o nel fuoco incrociato. Tutti, comunque, sono morti in luoghi a rischio per fare il loro lavoro.
Nella maggior parte dei casi, i fatti e i colpevoli restano avvolti nella nebbia. Ha senso cercarli in situazioni senza regole, in una babele di violazioni dei diritti umani? Le vittime sono effetti collaterali, se non ostacoli che il potere ha scientemente eliminato. Ecco che le coscienze si ritirano davanti a questa impunità. Nel rinnovare la memoria di Alpi e Hrovatin, invece, occorre guardare a un altro anniversario che ricorrerà il prossimo 24 maggio, la stessa data in cui era nata Ilaria. Si tratta di una storia paradigmatica dove si è dimostrato che, qualora vi sia la volontà, i crimini contro i giornalisti possono essere perseguiti. Dove non si è stabilita la responsabilità di singoli, ma quella di uno Stato. Dove non si è avuta giustizia, ma si è delineata la verità.
Donbass, Ucraina, 24 maggio 2014. Il fotoreporter pavese Andrea Rocchelli, trent’anni, è impegnato a documentare la vita della popolazione intrappolata negli scontri tra separatisti filorussi e forze regolari di Kiev, nei dintorni di Sloviansk. «Non parteggiava per nessuna fazione», spiegano Elisa e Rino, i suoi genitori: «A lui interessava la gente che resta nel cono d’ombra dei grandi avvenimenti e ne paga il prezzo più alto. Metteva le persone al centro, le ritraeva da un punto di vista alternativo, più vero, s’immergeva in crisi dimenticate. Da Haiti al Daghestan». Quel giorno, vicino alla ferrovia che segna la linea del fronte, viene ucciso da granate di mortaio. Muore anche Andrej Mironov, 60 anni, attivista russo per i diritti umani che gli fa da guida. Rimane ferito il fotografo francese William Roguelon, 23 anni, che si muove con loro. A fare fuoco sono la Guardia nazionale e l’esercito ucraini: dalla collina del Karachun, dove sono appostati a difesa di un’antenna televisiva, osservano i movimenti dei tre, usando l’artiglieria leggera per allontanarli e poi quella pesante per colpirli. Sembra un incidente di guerra, ma è un agguato.
«In questi dieci anni si sono susseguite fasi di calma piatta, accelerazioni e frenate», continuano Elisa e Rino: «Nel 2016 il fasci- colo aperto dalla Procura di Pavia per l’omicidio di Andrea era vuoto e si avviava all’archiviazione». La famiglia decide allora di rivolgersi all’avvocata Alessandra Ballerini e di andare a Sloviansk per ricostruire l’accaduto. Poi, la svolta. Il caso viene affidato al pm Andrea Zanoncelli: il magistrato scova una pista, convoca Roguelon, riattiva la domanda di assistenza giudiziaria all’Ucraina. Invano. Nel frattempo, però, in un taschino della custodia della macchina fotografica di Rocchelli, i colleghi del collettivo Cesura ritrovano la scheda di memoria con le sue ultime immagini. Le ha scattate nel fossato in cui si è riparato con Mironov e Roguelon, tracciando la sequenza temporale e l’avvicinarsi dei colpi. A pubblicarle per la prima volta è L’Espresso. Alla fine, l’insieme degli elementi investigativi porta a un sospettato: Vitaly Markiv, sergente della Guardia nazionale, cittadino ucraino e italiano. Arrestato e processato, nel 2019 viene condannato dalla Corte d’Assise di Pavia per concorso in omicidio. Nel 2020 la Corte d’Assise d’Appello di Milano lo assolve ritenendo non sufficientemente provato il fatto che abbia commesso il reato. Lui torna libero e vola a Kiev, dove riprenderà a combattere. Intanto, nel 2021, la Cassazione conferma la sentenza di secondo grado. E sono proprio le motivazioni di quella pronuncia a cristallizzare il quadro storico.
Il 24 maggio 2014, sul Karachun, le truppe ucraine seguono la consueta catena di comando. Markiv ha il compito di comunicare ai vertici gerarchici la presenza di estranei sul fronte, attendendo l’ordine di sparare con la mitragliatrice o fornendo le coordinate affinché i mortaisti centrino gli obiettivi. Tuttavia, non si dimostra che presti servizio nell’ora dell’imboscata e nella postazione da cui origina. A fiaccare l’impianto accusatorio, l’inutilizzabilità di otto testimonianze rese da suoi superiori e commilitoni: sebbene nei loro confronti possano esservi indizi di correità, non vengono esaminati con le specifiche garanzie previste dal Codice di procedura penale. Tra gli ufficiali c’è Bogdan Matkivskyi: la Procura di Pavia gli notifica l’avviso di conclusione dell’inchiesta-bis a suo carico, ma lui si rifiuta di ritirarlo.
Per le nostre Corti, uno Stato non può avere l’immunità per le violazioni dei diritti umani. Le violenze contro i giornalisti, quindi, vanno perseguite in tutto il mondo
Per i giudici d’appello, comunque, l’intensità e la direzione precisa dei colpi sparati dagli ucraini rivelano l’intenzione di eliminare Rocchelli, Mironov e Roguelon, pur riconoscibili come fotoreporter: «L’attacco ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva né da parte loro né da parte dei filorussi. È vero che la zona era sulla linea di tiro tra gli schieramenti, ma i giornalisti di guerra raggiungono proprio le linee del fronte per constatare e poi raccontare all’opinione pubblica ciò che avviene durante in conflitti. Si è trattato, quindi, di un ordine illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari». Pertanto, allo Stato ucraino «non può essere garantita l’immunità in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità, che, in quanto lesivi di valori universali, trascendono gli interessi delle singole comunità statali».
Invece, queste parole sono offuscate dalla vulgata imposta da Kiev: «La cassa di risonanza mediatica è in mano agli innocentisti e ai “patrioti”, con il supporto di frange radicali», commentano Elisa e Rino: «L’assoluzione è rappresentata come correzione di un errore giudiziario, mentre stampa e istituzioni ucraine costruiscono una narrazione eroicizzante di Markiv. Semmai bisogna riconoscere anche il valore della ricostruzione dei fatti consolidata in una sentenza ormai definitiva». A corroborarla, all’inizio del 2022, è un’indagine giornalistica trasmessa da RaiNews. Tra gli intervistati c’è un ex militare di stanza al Karachun nel 2014; l’ordine di sparare, dice, è stato impartito dal comandante della 95^ Brigata d’assalto aereo, Mykhailo Zabrodskyi: eletto in seguito parlamentare, nel 2023 è nominato vicecomandante in capo delle forze armate.
Ma l’invasione russa di febbraio congela ogni iniziativa dei magistrati italiani. La famiglia Rocchelli, quindi, presenta un esposto alla Corte penale internazionale dell’Aja, che ne recepisce la pertinenza e l’ammissibilità. «L’aggressione di Mosca ha polarizzato in maniera manichea il dibattito pubblico – concludono Elisa e Rino – la vicenda di Andrea è diventata un tabù, una questione politicamente sconveniente. Siamo convinti, al contrario, che chiedere conto di questo crimine di guerra all’Ucraina, con cui il nostro Paese si è schierato e che ambisce a entrare nell’Unione europea, non significhi sostenere Vladimir Putin, bensì praticare una politica estera degna di tale definizione».
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di Anna Dichiarante (L’Espresso, 15 marzo 2024)
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